“La storia e i personaggi vengono prima di tutto il resto.
Sono loro che ci hanno guidati in ciò che abbiamo realizzato.”
(John Lasseter)
Son passati 20 anni da quel 22 novembre del 1995 in cui usciva nei cinema americani il primo lungometraggio della Pixar, Toy Story. Il film fu il vero lancio della società fondata 10 anni prima nel lontano 1986, da Ed Catmull, Alvy Ray Smith e Steve Jobs. Grazie alla direzione artistica di John Lasseter, con l’aiuto di validi storyteller quali Pete Docter, Andrew Stanton e Joe Ranft, Toy Story aprì la strada per la prima volta ad una nuova rivoluzione nel campo dell’animazione, ampliando l’orizzonte dell’immaginazione. In questi 20 anni la Pixar ha fatto passi da gigante, ma grazie a questo film l’azienda si formò. Toy Story divenne la pietra miliare, come per la Walt Disney lo fu Biancaneve e i sette nani (1937) perché riuniva in un unico film tutta l’arte e la tecnologia fino ad ora conosciuta con uno stile grafico innovativo.
Come racconta John Lasseter in una intervista durante l’uscita del film: “Lavorare a Toy Story è stato bello, perché per noi si trattava di prendere una tecnica che avevamo usato pochissimo, in cortometraggi e spot televisivi, e farne un film di 75 minuti. A un tratto ci dicemmo: “Un momento, è un’impresa più ardua del previsto.” Da questa esperienza abbiamo imparato molto. L’insegnamento più grande è stato fidarci del nostro istinto e di fare i film come li vogliamo.”
Siamo nel 1990 e alla Pixar tutti avevano un chiodo fisso da un po’ di tempo: costruire il primo lungometraggio d’animazione in computer grafica. Non riuscivano a togliersi dalla testa questa idea. Ma la ricerca e lo sviluppo all’interno della società stava costando molte liquidità a Steve Jobs, che perse più di un milione di dollari all’anno per 5 anni. In questo momento di stasi e di difficoltà, Lasseter propose di realizzare uno speciale televisivo per le festività natalizie della durata di mezz’ora basato sul cortometraggio Tin Toy (1989) vincitore di un premio Oscar. “Tin Toy” ispirò l’idea di costruire un film sull’amicizia tra due giocattoli che prendevano vita raccontandola dal loro punto di vista in un mondo tridimensionale. Nell’idea originaria di Toy Story, Tinny, il giocattolo di latta, veniva accidentalmente dimenticato in un autogrill e faceva amicizia con un vecchio pupazzo da ventriloquo. Insieme trovavano un paradiso dei giocattoli in un asilo d’infanzia dove nessuno li poteva perdere o mettere da parte. Ma Tinny non funzionava perché era un giocattolo che richiamava poco la modernità dei tempi. Bisognava progettare un giocattolo più tecnologico. Così costruirono l’astroboy Lunar Lerry, più tardi chiamato Tempest from Morph, per poi diventare, richiamando il nome di un vero astronauta, Buzz Lightyear da unire al cowboy di pezza Woody Pride.
Nel luglio del 1991 Lasseter andò a presentare alla Disney il progetto iniziale di Tin Toy, ma gli offrirono una possibilità maggiore: realizzare quel sogno, poter creare il primo film animato al computer della storia chiamato Toy Story. Era l’inizio di una nuova era per Lasseter, come racconta: “Ricordo che vennero da me e ci dissero: ‘Facciamo un film!’. Veramente?! Ce l’abbiamo fatta. Era successo! O mio Dio, stiamo veramente per fare questo film. Ero così eccitato.” Lo studio e tutto il team era riuscito ad avere il miglior partner per costruire il loro primo lungometraggio, la Disney. Era un’occasione da non perdere per iniziare una collaborazione fortunata con la più grande major d’animazione.
Così iniziarono a pensare allo sviluppo dei personaggi. Per creare Woody il cowboy americano, Lasseter pensò ad un attore particolare, Tom Hanks il quale ricorda: “Non hanno fatto altro che prendere una mia battuta di “Turner e il casinaro", un film che avevo fatto per la Disney, e realizzare un frammento di animazione al computer in cui Woody la ripeteva. E in quel frammento Woody era completamente isterico. Batteva i pugni dappertutto, cadeva in ginocchio, batteva i pugni per terra, era assolutamente incredibile. Era perfetto. Se fossi andato li e avessi visto qualcosa che non avesse avuto senso non so se avrei fatto il film, ma ho visto Woody che parlava come me ed era perfettamente logico.”
Ma in Disney volevano comandare l’intero progetto. Avevano il desiderio di spingere l’intera storia al limite, renderlo un cartone animato per adulti. Il primo fra tutti fu Jeffrey Katzenberg, all’epoca nel consiglio di amministrazione degli studi Disney, dove si recava alle riunioni con gli sceneggiatori chiedendo di costruire una storia oltre il lecito, con grande incisività, per nulla appartenente ai canoni Disney. Woody giorno per giorno, divenne antipatico persino a chi costruiva le scene e le animava.
Ma in Pixar tutti dovevano compiacere tutti, tenendo conto di ogni nota e suggerimento che arrivava dalla Disney ed erano solo in fase di preproduzione nel primo anno di lavorazione. Nel dicembre 1993 il gruppo creativo Pixar composto da John Lasseter, Andrew Stanton, Pete Docter e Joe Ranft volò agli studi Disney di Burbank per presentare lo storyboard completo. Da questo momento in poi la Disney doveva approvare la fase successiva, la produzione del film, ma le cose non andarono proprio per il verso giusto. La storia non reggeva, non emozionava e né tantomeno commuoveva. L’errore più grave fu il character design, l’arma vincente in Pixar fino a quel punto. Lo storyboard su vhs durava un paio d’ore, ma come ricordano in Disney, era interminabile, poco credibile e noioso nell’azione scenica. Così da quel momento la Disney decise di fermare la produzione. Alla Pixar se lo ricordano tutti quel giorno funesto, il “black friday”. Il personaggio Woody era un pupazzo da ventriloquo, repellente, arrogante e saccente, un concentrato di humor e disonestà. Un carattere molto negativo. Giunti a quel punto i produttori risposero che non era il film che la Pixar voleva fare e che Lasseter aveva in testa. Così la Disney, dopo la chiusura forzata della produzione, voleva licenziare l’intero team, ma alla Pixar si rifiutarono. Negli studi pensarono ad una tattica di contrattacco: quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare, come ricorda Lasseter: “Dateci due settimane e lo rimetteremo in sesto.”
Pensarono ad una storia divertente, sincera ed emotiva, un progetto di collaborazione collettiva senza ascoltare le annotazioni dei manager Disney. L’intero team creativo si affidò all’istinto e, anche se il tempo, non era dalla loro parte ed era l’ultima possibilità con Disney, erano più carichi e rivitalizzati di prima. La Pixar stava costruendo il film che voleva fare, non quello che gli imponevano di fare. Così rifecero interamente gli storyboard a pieno ritmo, confezionando il nuovo storyboard animato in 3 settimane, un tempo da record. Il team creativo Pixar ritornò in Disney, dove erano già pronti a chiudere la produzione, ma videro il nuovo prodotto e dissero che era buono, mostrando potenziale in ciò che Toy Story poteva diventare. Così diedero il via libera alla produzione. In Pixar si risollevarono gli animi, ripartendo da quella nuova storia costruita interamente da loro senza interferenze esterne. Come ricorda Lasseter: “Mi rivolsi ai ragazzi e dissi: “Facciamo il film come lo vogliamo noi.” Lavorammo giorno e notte io, Andrew, Pete e Joe, gli autori, il team editoriale. Seguimmo il nostro istinto al 100%. Ci aiutavamo l’un l’altro. Era come se le nostre menti lavorassero all’unisono. Iniziammo a fare bozze approssimative, tanto poi le rivedevamo insieme e ci venivano altre idee. Avevamo le idee chiare. Usavamo i post-it. Sapevamo cosa avevamo davanti. Una cosa a cui tenevo molto, dopo la proiezione del “black friday”, era rendere Woody più simpatico. Il nostro scopo era rendere Woody così simpatico che quando iniziava a fare l’idiota l’istinto era dire: “Woody, non fare così”, anziché: “Questo è proprio idiota. Non m’importa di lui.”
Nessuno prima d’ora aveva mai fatto un film di questo genere, così il team si pose l’obiettivo di costruire il nuovo processo d’animazione per un lungometraggio in computer grafica, per rendere lo studio al massimo della produttività in maniera collaborativa. La grande sfida di Toy Story era quella di costruire un racconto armonico, divertente e gestire azioni con molti personaggi ed ambientazioni. La storia doveva guidare tutto il team come ci spiega Lasseter: “Ogni fotogramma di quella storia era nella mia testa: mentre lavoravo con i designer, con i modellatori, con il reparto layout, con gli animatori, non facevo che parlare della storia e spiegare a tutti come si doveva inserire nell’insieme generale”. Così, oltre a Tom Hanks, per doppiare l’altro protagonista del film, Buzz Lightyear, reclutarono anche Tim Allen: entrambi erano esaltati all’idea di fare un film d’animazione di quell’importanza. Per creare questo mondo nessun oggetto doveva mancare di una propria personalità. Una stanza di un bambino, infatti, doveva essere un mix di giocattoli, grandi e piccoli, con oggetti sparsi nell’ordine mentale di un bambino. Il concetto base dell’intero film era far prendere vita ai giocattoli, nel momento in cui gli umani non erano in casa. Tutto stava nella qualità dell’azione e dei movimenti che rendeva realistica la scena.
L’intento di Lasseter era quello di narrare la vita di un piccolo micromondo urbano, un melting pot di oggetti che prendevano vita. Il tema principale era quello di predisporre il pubblico a credere nei propri giocattoli, cioè a credere alla propria fantasia. Così il reparto creativo iniziò per la prima volta a studiare le differenti tipologie di plastiche colorate, dalle dimensioni alle forme, costruendo una vera e propria comunità di giocattoli come se costruissero la vita quotidiana di ognuno di noi. “Ogni oggetto fabbricato dall’uomo è creato per una ragione, e la ragione dei giocattoli è far felici i bambini”, come ci ricorda Lasseter. E così fa Pixar con i suoi film: rende felice il pubblico. Lasseter voleva immergere lo spettatore in un mondo di coesione tra umani e giocattoli che avessero una propria emotività e relazione. Questo fu il primo punto di contatto con gli spettatori. Il team di creativi costruì un legame molto forte tra Woody e il piccolo Andy, il collante fondamentale nel film, quale l’amicizia, altrimenti il pubblico non si sarebbe interessato alle azioni complementari e successive. Altro elemento fu la relazione fra i due protagonisti, Buzz e Woody, all’inizio visti come due antagonisti, per poi, attraverso gli eventi, farli diventare amici. Woody ha bisogno di imparare una lezione lungo tutta l’azione filmica, mentre Buzz ha bisogno di imparare che è solo un giocattolo e deve relazionarsi assieme agli altri giocattoli. L’uno ha bisogno dell’altro.
Ogni creatura animata, dagli umani agli animali, a ogni tipo di giocattolo, fu costruito in 3D con l’aiuto di un modello reale in argilla che potesse muoversi e prender vita. Come ci racconta il ricercatore e modellatore Even Ostby: “Le cose che sono rettilinee e geometriche possono essere facili e veloci da modellare visto che esistono già nei software. Ma i modelli che hanno una pelle, che vivono in un mondo reale, sono forme più complesse e le sculture di argilla ci facilitavano il lavoro per capire le complessità, dalle deformazioni alle espressioni, dalle muscolature alla flessibilità”. Così gli scultori attraverso una penna digitale potevano ridigitalizzare le coordinate dei punti della scultura per poi portarli in uno spazio tridimensionale. “Tutti i computer potevano registrare le coordinate che si stabilivano, ma era il modellatore a decidere il punto di vista, la superficie in termini matematici”, come ricorda il tecnico Bill Reeves. L’animatore aveva delle variabili su cui lavorare per le articolazioni e altre parti del modello come le labbra, le pupille, le braccia, le gambe, come un burattinaio che muove i fili della marionetta. Non è un caso che il software di animazione interno alla Pixar si chiami “Marionette”. Come racconta Catmull: “L’animatore conosceva l’arte di far vivere le cose. Ma c’erano anche persone che conoscevano l’arte di costruire i modelli. Chi li costruiva sapeva quale fosse la giusta luce, la miglior superficie, i capelli o che aspetto avesse la trapunta del letto dove potessero rimbalzare i giocattoli”. Artisti e tecnici lavoravano fianco a fianco per collaborare e costruire al meglio le varie sequenze, assieme ai computer che processavano 24 ore al giorno 7 giorni su 7, per tre mesi di fila. Fu un progetto ambizioso e complicato. L’intero team costruì 76 personaggi e 366 oggetti creati in computer grafica, per un totale di circa 1560 inquadrature. 100 persone lavorarono per realizzare 25.000 storyboard e 2000 modellini. Il rendering fu effettuato utilizzando 117 computer per un totale di 800.000 ore di impegno-macchina necessarie per l’elaborazione complessiva di 1000 Gigabytes (un trilione di bytes) di informazioni.
Dopo 4 anni di lavoro, Toy Story uscì negli Stati Uniti arrivando ad incassare più di 350 milioni di dollari in tutto il mondo, fondando la nuova industria d’animazione digitale. Il film era adorato dai bambini, dalle famiglie, dai critici, e da tutto lo show-business di Hollywood. Tutti i quotidiani lo recensirono positivamente definendolo appassionante, con un gran cuore e con personaggi emotivi, facendo capire così al mondo, che la Pixar era uno studio affidabile e dal gran livello qualitativo. Per questo l’Academy of Motion Picture consegnò a Lasseter l’Oscar speciale per il primo lungometraggio animato al computer (link) (link 2).
Steve Jobs e John Lasseter in quei giorni parteciparono al talk show “Charlie Rose Show” sottolineando che Toy Story era un film Pixar, come ricorda Jobs: “Dai tempi di ‘Biancaneve e i sette nani’, ogni grande studio cinematografico ha tentato di entrare nel mondo dell’animazione, ma finora la Disney era l’unica ad aver prodotto un film d’animazione blockbuster: la Pixar è adesso diventata il secondo studio a riuscirci.” (link)
Da questo grande successo la Pixar Animation Studios iniziò a scalare le vette del successo e dell’immaginazione unendo la collaborazione creativa tra arte nostalgica e passata, come il cowboy di pezza Woody, e la tagliente tecnologia rappresentata dall’uomo del futuro, Buzz Lightyear.
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