“Ho sempre creduto che per rendere grande un film d'animazione, si dovessero fare tre cose:
raccontare una storia avvincente che possa tenere incollate le persone alle sedie,
popolare la storia di personaggi memorabili e interessanti,
costruire un mondo credibile, unendo storia coinvolgente e personaggi indimenticabili.
Se si possono fare queste tre cose veramente bene,
allora il pubblico sarà totalmente immerso in questa avventura.”
(John Lasseter)
Ebbene si, anche la Pixar si è fatta adulta. 30 anni di creatività digitale in movimento costruiti sulla straordinaria abilità dei suoi artisti, tra disegni a matita e pixel colorati. In questi 30 anni i nostri occhi si sono imbevuti di emozioni, sogni e storie travolgenti. Sono proprio le storie a vigilare su tutte le fasi del processo creativo pixariano, laddove la tecnologia è piuttosto un mezzo per sostenere il valore della creatività umana, non la padrona di casa. Il mezzo animato analizza nel profondo la realtà e la nostra coscienza collettiva in un incredibile mash-up visivo di arte e tecnologia: storie di amicizia tra giocattoli, di animali e automobili parlanti, di supereroi e anziani in crisi con se stessi, di robot salvatori dell’umanità, fino a vivere in prima persona le emozioni di una bambina di 11 anni.
Era il 3 febbraio 1986 quando Steve Jobs fondava gli studi Pixar dall'acquisizione della divisione computer della Lucasfilm, capitanata dagli ingegneri Ed Catmull e Alvy Ray Smith. Da qui prese il largo la grande rivoluzione digitale animata guidata dal direttore creativo John Lasseter e dai registi e storyteller Pete Docter, Andrew Stanton, Joe Ranft e Brad Bird, diplomati alla prestigiosa California Art Institute di Los Angeles. Nel 1995 il primo lungometraggio Toy Story ci immerge nella nuova dimensione della “computer grafica per il cinema”, il nuovo stile di fare animazione che avevamo assaggiato nel 1982 con il Tron della Disney.
È l’eredità di lungo corso della Bay Area (California) che negli anni '40 aveva accolto le prime sperimentazioni visivo-cinetiche europee di Fischinger, Ruttman e Richter nel festival “Art in Cinema”, per poi dare i natali negli anni ’60 ai primi computer e segnare la svolta verso una nuova arte chiamata “computer art”: un cinema espanso, astratto ed ipnotico di artisti quali Jordan Belson, Charles Csuri, Stan Vanderbeek, Lillian Schwartz, i fratelli Whitney, Larry Cuba e Robert Abel. Sarà George Lucas verso la fine degli anni ’70 ad orientare l’utilizzo del computer per evolvere l’industria degli effetti speciali con la nuova tecnica di ripresa “motion control”, inaugurata da Guerre stellari (1977).
L'arrivo di Ed Catmull e Alvy Ray Smith - ricercatori software presso il New York Institute of Technology - alla neo-fondata divisione computer della Lucasfilm pone le basi del mondo dell'animazione come lo conosciamo oggi. A partire dalla pietra miliare che fu il Pixar Image Computer, utilizzato per la realizzazione di alcune evoluzioni spaziali in Star Trek II - L’Ira di Khan (1982) e del cavaliere di vetro in Piramide di Paura (1985). E poi i molti software: REYES, per la renderizzazione (padre dell’attuale Renderman), Marionette per l'animazione (l’attuale Presto), e CAPS - Computer Animation Production System, software di inchiostrazione, pittura e composizione che fece evolvere la Disney in un nuovo “rinascimento” negli anni ’90.
Il licenziamento di John Lasseter dalla Disney fu la fortuna della divisione computer. Lasseter, talentuoso storyteller, dopo aver sperimentato con l’amico Glen Keane la commistione di personaggi animati tradizionalmente a sfondi realizzati al computer in Where the wild things are, iniziò nella sua nuova casa a cimentarsi in piccole avventure animate per l’annuale conferenza sulla computer grafica, il SIGGRAPH. Dalla sua mente creativa vennero fuori personaggi emotivi modellati su solidi semplici: dall’androide infastidito da un’ape colorata nel corto The Adventures of Andrè and Wally B. (1984), alla relazione tra padre e figlio lampada in Luxo Jr. (1986), al triciclo sognatore in Red’s Dream (1987), all’impaurito one-man-band Tin Toy (1988), al pupazzo di neve giocherellone in Knick Knack (1989).
Steve Jobs fu lungimirante al pari di Walt Disney costruendo un nuovo impero dell’animazione per poi farsi acquisire dalla Disney stessa nel maggio 2006 in un periodo di crisi nera per la major di Topolino grazie all’attuale CEO Bob Iger. La Pixar doveva essere ricordata dal pubblico di generazione in generazione, raggiungendo ogni volta obiettivi inaspettati. Da San Rafael a Point Richmond fino al nuovo campus su misura di Emeryville, così Steve Jobs assieme a Peter Bohlin, l’architetto degli Apple Store, costruì il nuovo incubatore in un ex-zuccherificio non lontano da San Francisco. I creativi al loro interno potranno vivere in armonia tra di loro instaurando rapporti casuali per aumentare le loro possibilità creative. Avranno la possibilità di imparare nuove tecniche o corsi di cinema grazie alla Pixar University (ricordando il modello Disney-Graham alla fine degli anni ’30), assaggiare diversi cibi al Luxo Cafè o fare sport di gruppo, camminare all’aria aperta tra la natura o rifugiarsi in alcune salette cinema per rivedere gli stadi di avanzamento del film. Questa fu la nuova cultura jobsiana in Pixar: creatività collettiva inserita in un luogo amico, per far evolvere il vero motore dello studio, cioè le persone. L’importante è motivarli continuamente a spingersi sempre oltre le loro possibilità, rendendo la creatività un’alchimia di artisti e ingegneri. In aiuto al processo creativo vi è la struttura del “braintrust", un gruppo di veterani della Pixar che valuta ogni mese i progetti e aiuta i registi a tirar fuori i dubbi o le incertezze in maniera socratica senza dare ordini, ma dando dei suggerimenti per procedere nel processo creativo.
La Pixar anno dopo anno ha ampliato la sua poetica “real-espressionista”, inserendo il lato emotivo della realtà. Il reparto dello storytelling crea storie aggiungendo e sottraendo tasselli per mostrarci le piccole cose della vita, la poesia di una sguardo, l’avventura e la libertà del mondo che ci circonda, la casualità e l’intuito, la forza dell’amicizia, ciò che siamo e ciò che vorremmo diventare. È qui che si racchiude la potenza delle storie Pixar. Un inizio, uno svolgimento ed una fine che viene elaborato in un processo iterativo in maniera parallela e orizzontale tra sceneggiatori, story artist, registi, scultori, disegnatori 2d e 3d, editor e compositori musicali che si amalgamano l’un l’altro per infondere l’emotività, radice di ogni cosa nella società umana. L’imperativo è la collaborazione continua. Non importa chi ha l’idea migliore, ma esiste un continuo scambio tra reparti in una vera e propria atmosfera da college americano come in Monsters University.
Oggi dopo 30 anni e 16 lungometraggi in attivo (in arrivo Finding Dory), la Pixar è una realtà sorprendente e consolidata capace di parlare al suo pubblico, che non sono i più piccoli, ma la totalità delle persone, utilizzando un linguaggio cinematografico, giocando con i generi, dal buddy movie in Toy Story, alle avventure tra supereroi ne Gli Incredibili, alla brillante commedia francese in Ratatouille, alla fantascienza apocalittica in WALL·E, all’avventura miyazakiana in Up. Questi sono i meriti che hanno permesso alla casa di animazione di Emeryville di essere sul podio più alto rispetto ai suoi competitor (Dreamworks Animation, Blue Sky Studio, Sony Pictures Animation) e in maniera differente rispetto alla sua casa madre Disney. Sicuramente il futuro della Pixar sarà pieno di sorprese e di nuove rappresentazioni digitali per renderci persone curiose come una lente di ingrandimento fa davanti alle piccole ed incredibili cose della vita, ampliando l’orizzonte del nostro immaginario creativo.
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